La Melancolia svelata.
La Melanconia di Dürer è un opera che ha avuto una lunga gestazione, con tanti studi preliminari dedicati alle complessioni, appunto, ai caratteri, secondo le indicazioni della medicina d’ascendenza paracelsiana. Quella che compare nell’immagine più famosa ha fatto discutere schiere di simbolisti (a partire da quelli del Warburg Institute) ma qui ci soffermeremo solo su alcuni particolari.
Il primo è quello meno studiato. Stiamo parlando dell’enigmatico poliedro che compare a lato della figura centrale. Quel furbacchione di Dürer ha nascosto dietro un lavoro prospettico geniale, in cui ha impegnato tutta la sua abilità, un oggetto simbolicamente strategico.
[...]
Si tratta di un esaedro (una pietra cubica, per intenderci), simbolo alchimico della terra, anzi della prima materia secondo la consuetudine alchimica ordinaria (anche se molti studiosi hanno valutato trattarsi di un romboide). Comunque sia, il Dürer allude alla materia prima (perfetta o imperfetta che sia) su cui è indispensabile lavorare ulteriormente e alcuni ritengono che aver rappresentato un romboide anziché un cubo possa essere una ulteriore sfida per l’essere malinconico che dovrebbe lavorarla. La terra appunto, chiamata a volte il sale dei filosofi. Però, attraverso dei sapienti, anzi oseremmo dire filosofici, tagli su due degli spigoli del solido, Dürer ha reso tale poliedro volutamente irriconoscibile. Ed ha fatto sì che, da una posizione di equilibrio stabile, come sarebbe stata quella della pietra cubica, si passi ad una posizione abbastanza instabile, dove una base d’appoggio triangolare offre assai minori garanzie d’equilibrio. Tutto, nella incisione di Dürer, è sospeso nello spazio e nel tempo, è in posizione di equilibrio instabile, è contrapposto fra due stati dell’essere, fra due possibilità.
Il personaggio malinconico in primo piano, probabilmente non sa come fare per dare un senso alla sua esistenza e lavorare su quell’oggetto così strampalato che rappresenta la sua stessa natura. In terra ci sono tutti gli strumenti necessari ma, a quanto pare, con lo sguardo perso nel vuoto, non riesce a trovare l’energia e la giusta intuizione per usarli.
In tutto il medioevo, e in buona parte del rinascimento, quella delle complessioni, delle loro corrispondenze planetarie e delle terapie adatte a correggere gli eccessi di una complessione o di un’altra, era stata una teoria oggetto di numerosissimi trattati che avevano stimolato le migliori menti di quei tempi. Teniamo presente che buona parte delle caratteristiche psicosomatiche, definite dagli antichi medici-alchimisti rinascimentali, è rimasta pressoché immutata anche nella nostra moderna psicologia.
Agrippa ed altri ermetisti, ispirati dal neoplatonismo della scuola ficiniana, prevedevano vari stati melanconici, anche se non tutti si trovavano d’accordo su quale tipo di melanconia fosse in grado di essere foriera d’intuizione folgorante, di superamento della fase di stallo, abulica e a volte disperata, che contraddistingue lo stato d’animo di colui che cerca sé stesso.
Molti, fra i critici che hanno studiato questa celebre incisione, hanno perciò pensato che il termine “Melanconia I” indicasse solo un primo stato malinconico, al quale dovessero seguire necessariamente una “melanconia II”, operativa e piena di speranza e una “melanconia III”, realizzativa, illuminativa. Ma molti altri autori (tra i quali Saxl e Panofsky) celebri studiosi del simbolismo rinascimentale, propendono per l’ipotesi che nell’opera sia celato l’intero percorso ermetico.
Infatti fu proprio Ficino, grande traduttore e conoscitore di Platone e di Plotino, il principale propugnatore dello stato saturnio come foriero di grandi imprese. Dice infatti: Raramente Saturno significa caratteri e destini comuni degli uomini; più spesso indica uomini assai diversi dagli altri, divini o brutali, felici oppure affetti da estrema infelicità. Tale dicotomia la ritroviamo efficacemente espressa in quel pugno chiuso, sul quale poggia la guancia della Melanconia che non indica certamente abbandono dell’impresa ma impegno e ostinazione, al di là dell’apparente spossatezza. È sempre Ficino a dirci che: La bile nera (cioè la complessione malinconica) obbliga il pensiero a penetrare e ad esplorare il centro dei suoi oggetti, poiché la bile nera è essa stessa simile al centro della Terra. Parimenti essa solleva il pensiero alla comprensione delle cose più elevate poiché corrisponde al più alto dei pianeti.
Molti degli oggetti presenti nell’opera hanno fatto raffrontare la Melanconia a varie raffigurazioni della Geometria. La Geometria è, secondo Platone, l’arte per eccellenza, l’unica che consentiva l’ammissione alla sua accademia. Coordinatrice occulta delle Muse e delle Grazie, essa è l’Arte del Demiurgo, creatore e misuratore dell’universo, ma anche del filosofo, che, per omologia, si industria a trovare la misura e il raffronto tra le manifestazioni della natura.
Una delle raffigurazioni più note, al tempo di Dürer, era la Margarita filosofica di Gregor Reisch. Ma in tale opera, in cui ritroviamo buona parte degli attrezzi presenti nell’incisione di Dürer, esiste una attività fervida. Tutto viene utilizzato alacremente e non abbandonato a sé stesso. Per questo la Melanconia I sembra invece essere piombata nello stadio dell’akedia che prelude l’insuccesso, la disfatta e non la gloria. La stessa cometa che si tuffa nel mare, il cane affamato e malinconico, lo stato d’usura della mola su cui è seduto il puttino alato, la consumazione del compasso, e tanti altri particolari, ci fanno intuire una pesante fase di stallo, foriera di tragedia.
Ma alcuni elementi contraddicono tutto ciò. Ad esempio il puttino alato (alato e quindi dotato della capacità di volare come il personaggio principale), che scribacchia attivamente con uno stilo (lo stesso dell’incisore), quasi svincolato dalla mente melanconica che si è arenata su sé stessa. La clessidra, emblema del Saturno-Crono, che annuncia come sia trascorsa solo una metà del tempo, vicina al quadrato di Giove, benaugurale, foriero di successo.
Un ulteriore piccolo suggerimento ci può venire dallo stesso Dürer che, in uno dei suoi tanti scritti, suggerisce come solo la potenza dell’arte poteva liberare gli uomini dall’abulia e dalla falsità (e in questo ci ricorda il Giordano Bruno degli Eroici Furori). La Melanconia di Dürer è perciò una melanconia geometrica (Klibansky), una Melanconia artificiale, operativa, un vero e proprio colpo di genio colto nella sua drammaticità, nella terribile vacatio animae, quando arte e potenza rischiano di separarsi e l’oscuro destino del genio creativo oscilla fra salute e malattia. Quando, secondo Agrippa, tale processo può preludere o al sogno veritiero (somnia), o alla elevazione della contemplazione (raptus) o addirittura alla illuminazione dell’anima (furor). E concludiamo questo breve excursus con una frase di Agrippa Spesso vediamo melanconici incolti, sciocchi, irresponsabili (come leggiamo essere stati Esiodo, Ione, Timnico Calcidiense, Omero e Lucrezio), presi improvvisamente da questo furore, e divenire grandi poeti e trovare meravigliosi e divini carmi, che essi stessi, a stento comprendono… Claudio Lanzi ( per approfondimenti, cfr.:Agrippa: Occulta Filosofia ; Saxl, Panofsky, Klibansky:Saturno e la melanconia ; Lanzi: Ritmi e Riti )
All'interessante articolo di Claudio Lanzi, faccio seguire alcune considerazioni di René Guénon sulla ( 1 )scala , uno dei simboli che il Durer mette in primo piano nella sua celeberrima composizione. Le parole di Guénon che sull'alchimia fa affermazioni fuorvianti ( si veda il capitolo III " Sollecitazioni fraudolente o insensate " del libro " L'Alchimia spiegata sui suoi testi classici " di Eugène Canseliet ) hanno valore puramente bibliografico affinchè il lettore in questa sorta di rassegna abbia modo di approfondire in tutta libertà .
Un simbolo assai diffuso, che si ricollega immediatamente allo stesso ordine di idee, è quello della scala ( 2), essa pure un simbolo «assiale»; come dice A.K. Coomaraswamy, «l’Asse dell’Universo è come una scala sulla quale si effettua un perpetuo movimento ascendente e discendente» [The Inverted Tree, p. 20]. Far sì che si compia tale movimento è infatti la destinazione essenziale della scala; e poiché, come abbiamo appena visto, anche l’albero o l’albero di una nave svolgono la stessa funzione, si può ben dire che la scala sia in questo senso il suo equivalente. Da un altro lato, la particolare forma della scala richiede alcune osservazioni; i suoi due montanti verticali corrispondono alla dualità dell’«Albero della Scienza», o, nella Cabala ebraica, alle due «colonne» di destra e di sinistra dell’albero sefirotico; né l’uno né l’altro è dunque propriamente «assiale», e la «colona di mezzo», che è l’asse vero e proprio, non è raffigurata in modo sensibile (come nei casi in cui non lo è neppure il pilastro centrale di un edificio); d’altronde, l’intera scala nel suo complesso è in certo modo «unificata» dai pioli che congiungono i due montanti, e che, essendo posti orizzontalmente fra questi, hanno necessariamente i loro punti centrali proprio sull’asse. [Nell'antico ermetismo cristiano si trova l'equivalente di questo in un certo simbolismo della lettera H, con le sue due gambe verticali unite dal tratto orizzontale]. Si vede come la scala offra così un simbolismo completo: si potrebbe dire che essa è come un “ponte» verticale che si eleva attraverso tutti i mondi e permette di percorrerne l’intera gerarchia passando di piolo in piolo; nello stesso tempo, i pioli sono i mondi stessi, cioè i diversi livelli o gradi dell’Esistenza universale [Il simbolismo del «ponte» potrebbe naturalmente dar luogo, sotto i suoi vari aspetti, a molte altre considerazioni; si potrebbe anche ricordare, per certi rapporti con tale tema, il simbolismo islamico della «tavola custodita» (el lawhul-mahfuz), prototipo «atemporale» delle Scritture sacre che, partendo dal più alto dei cieli, discende verticalmente attraversando tutti i mondi].
Tale significato è evidente nel simbolismo biblico della scala di Giacobbe, lungo la quale gli angeli salgono e scendono; ed è noto che Giacobbe, nel luogo in cui aveva avuto la visione di questa scala, posò una pietra che «eresse come un pilastro», la quale è anche una figura dell’«Asse del Mondo», e viene così in certo modo a sostituirsi alla scala stessa [Cfr. “Le Roi du Monde”, cap. IX]. Gli angeli rappresentano propriamente gli stati superiori dell’essere; a essi corrispondono quindi più particolarmente i pioli, il che si spiega con il fatto che la scala dev’essere considerata con la base poggiata a terra, cioè, per noi, è necessariamente il nostro mondo il «supporto” a partire dal quale si deve effettuare l’ascensione. Se anche si supponesse che la scala si prolunghi sottoterra per comprendere la totalità dei mondi, come in realtà dev’essere, la sua parte inferiore sarebbe in ogni caso invisibile, così come è invisibile per gli esseri giunti a una «caverna» situata a un certo livello tutta la parte dell’albero centrale che si prolunga al di sotto di essa; in altri termini, i pioli inferiori sono già stati percorsi, e non è più il caso di prenderli in considerazione per quanto concerne la realizzazione ulteriore dell’essere, alla quale potrà concorrere solo il percorso dei pioli superiori.
Per questo, soprattutto quando la scala è usata come un elemento di certi riti iniziatici, i suoi pioli sono espressamente considerati come rappresentazioni dei diversi cieli, cioè degli stati superiori dell’essere; è così che in particolare nei misteri mitriaci la scala aveva sette pioli che erano messi in rapporto con i sette pianeti ed erano formati, si dice, dai metalli a essi rispettivamente corrispondenti; e il percorso di questi pioli raffigurava quello di altrettanti gradi successivi dell’iniziazione. Questa scala a sette pioli si ritrova in certe organizzazioni iniziatiche medioevali, da cui passò probabilmente più o meno direttamente negli alti gradi della massoneria scozzese, come abbiamo detto altrove a proposito di Dante [L'Esotérisme de Dante, capp. II e III]; qui i pioli sono riferiti ad altrettante «scienze», ma ciò non costituisce alcuna differenza di fondo, poiché secondo Dante stesso tali «scienze» si identificano con i «cieli» [Convito, II, cap. XIV]. È ovvio che, per corrispondere così a stati superiori e a gradi di iniziazione, queste scienze dovevano essere delle scienze tradizionali intese nel loro senso più profondo e più propriamente esoterico, e questo anche per quelle tra esse i cui nomi, in virtù del processo degenerativo al quale abbiamo spesso accennato, designano ormai per i moderni solo scienze o arti profane, cioè qualcosa che, in rapporto a quelle scienze vere, non è in realtà niente di più che una scorza vuota e un «residuo» privo di vita.
(1) Si veda l'ultima tavola del Mutus Liber.
(2) Si vedano le note in questo sito di Pico della Mirandola sulla scala alla voce << Alchimisti ?>>
La città di Norimberga di cui alla dinastia di noti alchimisti quali erano gli Hohenzollern, può aver influenzato Durer oltre all'amicizia con Willibald Pirckheimer nonchè le letture di Tritemio . Lo studioso dovrà , se la cosa gli garba , stabilire quale momento preciso della Grande Opera viene rappresentato da Durer , con attenzione, separando il grano dal loglio come è consuetudine. La comunione di simboli rappresentati dall'artista può essere di grande aiuto, infatti. La malinconia, l'antica 'melancolia' (dal greco μελαγχολία, composto di μέλας, "nero", e χολή, "bile"), ovvero bile nera, l’umore che determina la corrispondente complessione dell’uomo, è uno stato d'animo caratterizzato da tristezza . Come porvi rimedio? O meglio l'alchimista deve porvi rimedio ? Una domanda che mi sono posto spesso è la seguente : perchè è triste la figura femminile in primo piano? Ha una sua ragione precisa? Quali i possibili riferimenti nella letteratura ermetica?
Paolo Lucarelli ripeteva spesso che chi è "triste/o " non può praticare l' Alchimia.
La malinconia dagli oscuri occhi, triste compagna
William Shakespeare, o a essere precisi il vero nome di Shakespeare : Jean Florio
gdg
Il primo è quello meno studiato. Stiamo parlando dell’enigmatico poliedro che compare a lato della figura centrale. Quel furbacchione di Dürer ha nascosto dietro un lavoro prospettico geniale, in cui ha impegnato tutta la sua abilità, un oggetto simbolicamente strategico.
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Si tratta di un esaedro (una pietra cubica, per intenderci), simbolo alchimico della terra, anzi della prima materia secondo la consuetudine alchimica ordinaria (anche se molti studiosi hanno valutato trattarsi di un romboide). Comunque sia, il Dürer allude alla materia prima (perfetta o imperfetta che sia) su cui è indispensabile lavorare ulteriormente e alcuni ritengono che aver rappresentato un romboide anziché un cubo possa essere una ulteriore sfida per l’essere malinconico che dovrebbe lavorarla. La terra appunto, chiamata a volte il sale dei filosofi. Però, attraverso dei sapienti, anzi oseremmo dire filosofici, tagli su due degli spigoli del solido, Dürer ha reso tale poliedro volutamente irriconoscibile. Ed ha fatto sì che, da una posizione di equilibrio stabile, come sarebbe stata quella della pietra cubica, si passi ad una posizione abbastanza instabile, dove una base d’appoggio triangolare offre assai minori garanzie d’equilibrio. Tutto, nella incisione di Dürer, è sospeso nello spazio e nel tempo, è in posizione di equilibrio instabile, è contrapposto fra due stati dell’essere, fra due possibilità.
Il personaggio malinconico in primo piano, probabilmente non sa come fare per dare un senso alla sua esistenza e lavorare su quell’oggetto così strampalato che rappresenta la sua stessa natura. In terra ci sono tutti gli strumenti necessari ma, a quanto pare, con lo sguardo perso nel vuoto, non riesce a trovare l’energia e la giusta intuizione per usarli.
In tutto il medioevo, e in buona parte del rinascimento, quella delle complessioni, delle loro corrispondenze planetarie e delle terapie adatte a correggere gli eccessi di una complessione o di un’altra, era stata una teoria oggetto di numerosissimi trattati che avevano stimolato le migliori menti di quei tempi. Teniamo presente che buona parte delle caratteristiche psicosomatiche, definite dagli antichi medici-alchimisti rinascimentali, è rimasta pressoché immutata anche nella nostra moderna psicologia.
Agrippa ed altri ermetisti, ispirati dal neoplatonismo della scuola ficiniana, prevedevano vari stati melanconici, anche se non tutti si trovavano d’accordo su quale tipo di melanconia fosse in grado di essere foriera d’intuizione folgorante, di superamento della fase di stallo, abulica e a volte disperata, che contraddistingue lo stato d’animo di colui che cerca sé stesso.
Molti, fra i critici che hanno studiato questa celebre incisione, hanno perciò pensato che il termine “Melanconia I” indicasse solo un primo stato malinconico, al quale dovessero seguire necessariamente una “melanconia II”, operativa e piena di speranza e una “melanconia III”, realizzativa, illuminativa. Ma molti altri autori (tra i quali Saxl e Panofsky) celebri studiosi del simbolismo rinascimentale, propendono per l’ipotesi che nell’opera sia celato l’intero percorso ermetico.
Infatti fu proprio Ficino, grande traduttore e conoscitore di Platone e di Plotino, il principale propugnatore dello stato saturnio come foriero di grandi imprese. Dice infatti: Raramente Saturno significa caratteri e destini comuni degli uomini; più spesso indica uomini assai diversi dagli altri, divini o brutali, felici oppure affetti da estrema infelicità. Tale dicotomia la ritroviamo efficacemente espressa in quel pugno chiuso, sul quale poggia la guancia della Melanconia che non indica certamente abbandono dell’impresa ma impegno e ostinazione, al di là dell’apparente spossatezza. È sempre Ficino a dirci che: La bile nera (cioè la complessione malinconica) obbliga il pensiero a penetrare e ad esplorare il centro dei suoi oggetti, poiché la bile nera è essa stessa simile al centro della Terra. Parimenti essa solleva il pensiero alla comprensione delle cose più elevate poiché corrisponde al più alto dei pianeti.
Molti degli oggetti presenti nell’opera hanno fatto raffrontare la Melanconia a varie raffigurazioni della Geometria. La Geometria è, secondo Platone, l’arte per eccellenza, l’unica che consentiva l’ammissione alla sua accademia. Coordinatrice occulta delle Muse e delle Grazie, essa è l’Arte del Demiurgo, creatore e misuratore dell’universo, ma anche del filosofo, che, per omologia, si industria a trovare la misura e il raffronto tra le manifestazioni della natura.
Una delle raffigurazioni più note, al tempo di Dürer, era la Margarita filosofica di Gregor Reisch. Ma in tale opera, in cui ritroviamo buona parte degli attrezzi presenti nell’incisione di Dürer, esiste una attività fervida. Tutto viene utilizzato alacremente e non abbandonato a sé stesso. Per questo la Melanconia I sembra invece essere piombata nello stadio dell’akedia che prelude l’insuccesso, la disfatta e non la gloria. La stessa cometa che si tuffa nel mare, il cane affamato e malinconico, lo stato d’usura della mola su cui è seduto il puttino alato, la consumazione del compasso, e tanti altri particolari, ci fanno intuire una pesante fase di stallo, foriera di tragedia.
Ma alcuni elementi contraddicono tutto ciò. Ad esempio il puttino alato (alato e quindi dotato della capacità di volare come il personaggio principale), che scribacchia attivamente con uno stilo (lo stesso dell’incisore), quasi svincolato dalla mente melanconica che si è arenata su sé stessa. La clessidra, emblema del Saturno-Crono, che annuncia come sia trascorsa solo una metà del tempo, vicina al quadrato di Giove, benaugurale, foriero di successo.
Un ulteriore piccolo suggerimento ci può venire dallo stesso Dürer che, in uno dei suoi tanti scritti, suggerisce come solo la potenza dell’arte poteva liberare gli uomini dall’abulia e dalla falsità (e in questo ci ricorda il Giordano Bruno degli Eroici Furori). La Melanconia di Dürer è perciò una melanconia geometrica (Klibansky), una Melanconia artificiale, operativa, un vero e proprio colpo di genio colto nella sua drammaticità, nella terribile vacatio animae, quando arte e potenza rischiano di separarsi e l’oscuro destino del genio creativo oscilla fra salute e malattia. Quando, secondo Agrippa, tale processo può preludere o al sogno veritiero (somnia), o alla elevazione della contemplazione (raptus) o addirittura alla illuminazione dell’anima (furor). E concludiamo questo breve excursus con una frase di Agrippa Spesso vediamo melanconici incolti, sciocchi, irresponsabili (come leggiamo essere stati Esiodo, Ione, Timnico Calcidiense, Omero e Lucrezio), presi improvvisamente da questo furore, e divenire grandi poeti e trovare meravigliosi e divini carmi, che essi stessi, a stento comprendono… Claudio Lanzi ( per approfondimenti, cfr.:Agrippa: Occulta Filosofia ; Saxl, Panofsky, Klibansky:Saturno e la melanconia ; Lanzi: Ritmi e Riti )
All'interessante articolo di Claudio Lanzi, faccio seguire alcune considerazioni di René Guénon sulla ( 1 )scala , uno dei simboli che il Durer mette in primo piano nella sua celeberrima composizione. Le parole di Guénon che sull'alchimia fa affermazioni fuorvianti ( si veda il capitolo III " Sollecitazioni fraudolente o insensate " del libro " L'Alchimia spiegata sui suoi testi classici " di Eugène Canseliet ) hanno valore puramente bibliografico affinchè il lettore in questa sorta di rassegna abbia modo di approfondire in tutta libertà .
Un simbolo assai diffuso, che si ricollega immediatamente allo stesso ordine di idee, è quello della scala ( 2), essa pure un simbolo «assiale»; come dice A.K. Coomaraswamy, «l’Asse dell’Universo è come una scala sulla quale si effettua un perpetuo movimento ascendente e discendente» [The Inverted Tree, p. 20]. Far sì che si compia tale movimento è infatti la destinazione essenziale della scala; e poiché, come abbiamo appena visto, anche l’albero o l’albero di una nave svolgono la stessa funzione, si può ben dire che la scala sia in questo senso il suo equivalente. Da un altro lato, la particolare forma della scala richiede alcune osservazioni; i suoi due montanti verticali corrispondono alla dualità dell’«Albero della Scienza», o, nella Cabala ebraica, alle due «colonne» di destra e di sinistra dell’albero sefirotico; né l’uno né l’altro è dunque propriamente «assiale», e la «colona di mezzo», che è l’asse vero e proprio, non è raffigurata in modo sensibile (come nei casi in cui non lo è neppure il pilastro centrale di un edificio); d’altronde, l’intera scala nel suo complesso è in certo modo «unificata» dai pioli che congiungono i due montanti, e che, essendo posti orizzontalmente fra questi, hanno necessariamente i loro punti centrali proprio sull’asse. [Nell'antico ermetismo cristiano si trova l'equivalente di questo in un certo simbolismo della lettera H, con le sue due gambe verticali unite dal tratto orizzontale]. Si vede come la scala offra così un simbolismo completo: si potrebbe dire che essa è come un “ponte» verticale che si eleva attraverso tutti i mondi e permette di percorrerne l’intera gerarchia passando di piolo in piolo; nello stesso tempo, i pioli sono i mondi stessi, cioè i diversi livelli o gradi dell’Esistenza universale [Il simbolismo del «ponte» potrebbe naturalmente dar luogo, sotto i suoi vari aspetti, a molte altre considerazioni; si potrebbe anche ricordare, per certi rapporti con tale tema, il simbolismo islamico della «tavola custodita» (el lawhul-mahfuz), prototipo «atemporale» delle Scritture sacre che, partendo dal più alto dei cieli, discende verticalmente attraversando tutti i mondi].
Tale significato è evidente nel simbolismo biblico della scala di Giacobbe, lungo la quale gli angeli salgono e scendono; ed è noto che Giacobbe, nel luogo in cui aveva avuto la visione di questa scala, posò una pietra che «eresse come un pilastro», la quale è anche una figura dell’«Asse del Mondo», e viene così in certo modo a sostituirsi alla scala stessa [Cfr. “Le Roi du Monde”, cap. IX]. Gli angeli rappresentano propriamente gli stati superiori dell’essere; a essi corrispondono quindi più particolarmente i pioli, il che si spiega con il fatto che la scala dev’essere considerata con la base poggiata a terra, cioè, per noi, è necessariamente il nostro mondo il «supporto” a partire dal quale si deve effettuare l’ascensione. Se anche si supponesse che la scala si prolunghi sottoterra per comprendere la totalità dei mondi, come in realtà dev’essere, la sua parte inferiore sarebbe in ogni caso invisibile, così come è invisibile per gli esseri giunti a una «caverna» situata a un certo livello tutta la parte dell’albero centrale che si prolunga al di sotto di essa; in altri termini, i pioli inferiori sono già stati percorsi, e non è più il caso di prenderli in considerazione per quanto concerne la realizzazione ulteriore dell’essere, alla quale potrà concorrere solo il percorso dei pioli superiori.
Per questo, soprattutto quando la scala è usata come un elemento di certi riti iniziatici, i suoi pioli sono espressamente considerati come rappresentazioni dei diversi cieli, cioè degli stati superiori dell’essere; è così che in particolare nei misteri mitriaci la scala aveva sette pioli che erano messi in rapporto con i sette pianeti ed erano formati, si dice, dai metalli a essi rispettivamente corrispondenti; e il percorso di questi pioli raffigurava quello di altrettanti gradi successivi dell’iniziazione. Questa scala a sette pioli si ritrova in certe organizzazioni iniziatiche medioevali, da cui passò probabilmente più o meno direttamente negli alti gradi della massoneria scozzese, come abbiamo detto altrove a proposito di Dante [L'Esotérisme de Dante, capp. II e III]; qui i pioli sono riferiti ad altrettante «scienze», ma ciò non costituisce alcuna differenza di fondo, poiché secondo Dante stesso tali «scienze» si identificano con i «cieli» [Convito, II, cap. XIV]. È ovvio che, per corrispondere così a stati superiori e a gradi di iniziazione, queste scienze dovevano essere delle scienze tradizionali intese nel loro senso più profondo e più propriamente esoterico, e questo anche per quelle tra esse i cui nomi, in virtù del processo degenerativo al quale abbiamo spesso accennato, designano ormai per i moderni solo scienze o arti profane, cioè qualcosa che, in rapporto a quelle scienze vere, non è in realtà niente di più che una scorza vuota e un «residuo» privo di vita.
(1) Si veda l'ultima tavola del Mutus Liber.
(2) Si vedano le note in questo sito di Pico della Mirandola sulla scala alla voce << Alchimisti ?>>
La città di Norimberga di cui alla dinastia di noti alchimisti quali erano gli Hohenzollern, può aver influenzato Durer oltre all'amicizia con Willibald Pirckheimer nonchè le letture di Tritemio . Lo studioso dovrà , se la cosa gli garba , stabilire quale momento preciso della Grande Opera viene rappresentato da Durer , con attenzione, separando il grano dal loglio come è consuetudine. La comunione di simboli rappresentati dall'artista può essere di grande aiuto, infatti. La malinconia, l'antica 'melancolia' (dal greco μελαγχολία, composto di μέλας, "nero", e χολή, "bile"), ovvero bile nera, l’umore che determina la corrispondente complessione dell’uomo, è uno stato d'animo caratterizzato da tristezza . Come porvi rimedio? O meglio l'alchimista deve porvi rimedio ? Una domanda che mi sono posto spesso è la seguente : perchè è triste la figura femminile in primo piano? Ha una sua ragione precisa? Quali i possibili riferimenti nella letteratura ermetica?
Paolo Lucarelli ripeteva spesso che chi è "triste/o " non può praticare l' Alchimia.
La malinconia dagli oscuri occhi, triste compagna
William Shakespeare, o a essere precisi il vero nome di Shakespeare : Jean Florio
gdg
La Cometa di Giotto.
Fu Giotto il primo a dipingere la natività con una stella dotata di una lunga coda, nell'affresco contenuto nella cappella degli Scrovegni a Padova.
" Nell'iconografia dei primi secoli del cristianesimo il fenomeno celeste che indicò la nascita di Gesù fu rappresentato in forma di stella, con un numero delle punte variabile da cinque, a sei ed a otto. Così si vede in un affresco paleocristiano del II secolo d. C., dipinto nella Cappella dei Greci all'interno delle Catacombe di Santa Priscilla a Roma, nel timpano della Cattedrale di Saint-Gill-du-Garde, un'abbazia Benedettina della Francia meridionale risalente al 1181, e in un affresco appartenente al ciclo del Nuovo Testamento dipinto dal Maestro di Ferentillo tra il 1182 e il 1187 nell'abbazia di san Pietro in Valle di Ferentillo, nei pressi di Terni.
La due ultime rappresentazioni, la francese e l'umbra, risultano coeve e unite tra loro da un medesimo stile iconografico, con il più vecchio che indica la stella e gli altri due che si ritraggono impauriti dall'inusuale bagliore del corpo celeste. Nell'affresco di Ferentillo la stella è rappresentata con un simbolo già usato nella Mesopotamia del II-III millennio a. C. per indicare Ishtar/Inanna, la dea identificata con il pianeta Venere. Ciò ha fatto dedurre all'archeoastronomo Francesco Polcaro che il corpo celeste visto dai Magi poteva aver raggiunto la luminosità di Venere alla sua massima visibilità. (Atti del V Congresso Nazionale di Archeoastronomia INAF- Osservatorio Astronomico di Brera 2005). Egli ha collegato la rappresentazione della stella dell'affresco di Ferentillo con l'esplosione della supernova SN 1181, vista in Cassiopea il 6 agosto 1181, sulla base dell'esperienza vissuta dal Maestro di Ferentillo, che poi dipinse l'affresco nel 1182.
La rappresentazione risulta coerente con l'ipotesi già formulata nel II secolo d. C. da Origene, il quale scrisse che la stella di Betlemme era stata una 'nova', ossia una stella esplosa [...] Anche Keplero, che studiò la SN 1604, esplosa nella Via Lattea nella costellazione Ofiuco, si orientò a ritenere che la Stella dei Magi fosse stata una supernova, che però poteva essere stata osservabile ad occhio nudo soltanto se esplosa nella Via Lattea, un evento raro registrato solo per otto volte e a distanza di 400 anni l'uno dall'altro ". Marisa Grande, Corriere Salentino.it
Pietro D’Abano era un filosofo e medico padovano (1257-1315) ed è opinione comune che avesse influenzato Giotto nella realizzazione del ciclo astrologico del Palazzo della Ragione di Padova. D'Abano ,infatti, seguiva nell’interpretazione delle comete il pensiero aristotelico, ovverosia le comete erano “esalazioni secche e calde, che s’infiammano … Dopo un grande fuoco, la materia perde il colore rosso e si tinge di nero”. Bellinati conferma questa tesi perchè la descrizione di D'Abano delle comete si attaglia perfettamente alla cometa di Giotto: in effetti il suo colore rosso si stempera piano piano, verso la fine della coda, in una tinta nerastra.
Pietro d'Abano fu, ahimè, processato più volte per eresia ( con l'accusa di magia ? ) perchè pare fosse influenzato dall'opera di Tolomeo << Tetrabiblos >> dalla quale riprende la dottrina dell'influenza degli astri sulla vita quotidiana. D'Abano comunque ebbe " anche " il torto di documentare la sua nefaste convinzioni in alcuni scritti quali: Conciliator differentiarum medicorum et philosophorum; Compilatio physonomiae, Lucidator dubitabilium astrologiae e , anche, nel De imaginibus .
Roberta Olson ,infine, storica dell'arte americana, sostiene che la cometa dipinta da Giotto nell’Adorazione dei Magi del ciclo di affreschi nella Cappella degli Scrovegni di Padova rappresenta la cometa di Halley che il grande pittore- secondo lei- ebbe modo di vedere. Molti i dubbi sulle affermazioni della Olson , anche di natura astronomica.
Nel capitolo " La Stella polare dei Magi " in L'Alchimia spiegata sui suoi testi classici , Eugène Canseliet ripropone un passo di capitale importanza di Fulcanelli e fornisce una indicazione preziosa per chi vuol seguire il cammino dei Magi :
<< Si comprende senza fatica che la stella - manifestazione esteriore del sole interno - si presenta ogni volta che una nuova porzione di mercurio viene a bagnare il solfo non dissolto , e che subito questi cessa di essere visibile , per ricomparire alla decantazione , cioè all'allontanamento della materia astrale. Ritorna ,dice il fisso, e io ritornerò >>
REVERTERE ET REVERTAR
( sentenza che si trova sul cassettone che mostra " la stella dei saggi " a Dampierre-sur-Boutonne - Fulcanelli, Le Dimore Filosofali )
gdg
Il Presepe di S.Candido.
Qualche tempo fa ho ricevuto in dono un piccolo presepe intagliato a mano. Nel fondo un’etichetta indica che il manufatto proviene dal negozio di B. Lardeschneider di S. Candido-Innichen .Siamo a pochi chilometri dall’Austria e la Sacra Famiglia sembra risentire nel tratto della bellezza sfolgorante delle Dolomiti di Sesto. Ma ecco che l’artigiano si fa prendere la mano e, inopinatamente, sostituisce al toro e all’asinello due angeli in atteggiamento di preghiera. L’intenzione può apparire lodevole ma il risultato è disastroso sul piano -1- simbolico.
Ecce magnis auribus
Subjugalis filius
Asinus egregius
Asinorum dominus.
Cattedrale Saint-Etienne, Beauvais.
E ancora : Aurum de Arabia,
Thus et myrram de Saba
Tulit in Ecclesia
Virtus asinaria
Hez,Sir asne, hez!
Quarta strofa del manoscritto di Sens denominato “ Prosa dell’Asino” di Pierre de Corbeille, XIII° secolo.
L’asino viene rappresentato nella Bibbia poi, come la montura dei principi ( Libro dei Giudici,V,10) e dello stesso Re della Pace nell’entusiastica profezia ( Isaia, Profezie,I,3 ) che prefigura l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme nel giorno delle Palme; senza dimenticare la fuga in Egitto del Salvatore e di Maria sulla groppa dello sgraziato animale.
In tutti i casi possiamo quindi dire che l’asino “ porta” il Cristo, come Cristoforo tant'é che in una icona del Museo storico di Mosca il santo viene rappresentato con una testa d’asino.
Ma è Fulcanelli che del goffo animale ne sancisce l’insostituibilità :
“ l’asino è l’aliboron mitico, il cavallo del Sole ” ( Les Dimores Philosophales , I° V.) mentre il Cristo è il Sole di giustizia,
l’Oro nascente.
Quest’asino quindi, che potrebbe sorprendere se non scandalizzare per gli onori che , in un rubicondo e giocoso tourbillon, gli venivano attribuiti nelle “ Feste dell’Asino” di antica memoria, può aver indotto il solerte artigiano della Val Pusteria a sostituirlo nel presepe perché “ simbolo di un soggetto bruto e fortemente disgraziato ” ? Inoltre, l’asino quale montura del Cristo é nello stesso tempo portatore di una “ croce redentrice ” disegnata sulla schiena, senza considerare poi, quando lo si ritrae mentre “canta la sua messa” come nel castello di Plessis- Bourré ( Eugène Canseliet “ Deux Logis Alchimiques ” ) e prima ancora, nelle cattedrali di Nantes e Chartres.Vicino all’asino va posto il toro ( e non il bue, si veda “ Le sacrifice cosmique du taureau zodiacal ”, Severin Batfroi in Atlantis n° 286,1976 ), indipendentemente dal fatto che recenti studi attribuiscono ad Arnolfo di Cambio e non a S.Francesco d’Assisi la “ paternità ” del presepe.
Il toro nei culti precristiani si identificava con il sole come l’Apis egizio portatore del disco solare opportunamente collocato nelle ampie corna che evocano la luna e nel contempo, l’elegante connubio fra l’astro diurno e notturno. Ed è questo connubio che gli alchimisti hanno voluto indicare sovrapponendo al cerchio la falce lunare per poi aggiungere una croce ed un punto centrale qualora fosse necessario.
Nel mitreo del Circo Massimo a Roma, forse il più completo dei mitrei italici, il dio Mitra – sole invitto - dal cappello frigio - 2- aggredisce un possente toro infliggendogli con una daga una larga ferita alla gola: un cane e un serpente vi si abbeverano mentre in alto a sinistra della composizione, un corvo annuncia “ l’aprico raggio di Febo ” . Il culto aveva luogo in una grotta nel seno della Madre Terra poiché “ fin dalle origini il Toro sembra rappresentare il Dio Creatore e sopra ogni cosa, il cielo” ( J.Duchaussoy in Le Bestiaire divin ): e questo è un altro connubio al quale il presepe vuole dare particolare risalto.
Mi perdonerà il lettore di queste mescolanze di culti e religioni che non vogliono né confondere o turbare gli animi, ma molto più semplicemente vogliono attribuire un ben diverso ruolo ai due animali che devono, mio caro signor Lardeschneider, essere posti con il giusto risalto in tutti i presepi .
gdg
Note.
1. L’etimologia di presepe non è priva di sorprese . Dal latino prae= pre e saepire= cingere con una siepe. Da qui le fedeli rappresentazioni di alcuni artisti che ritraggono il Figlio di Dio protetto da una sorta di intreccio a graticcio ( se non in miglior modo, avvolgendo il corpo del “ Pesce solare ” con fasce incrociate ). Il significato è “ parlante ” e la greppia o mangiatoia o se si preferisce, la stalla potrebbero portare a proficue riflessioni se l’ artigiano di S. Candido prima di intagliare il legno con indubbia maestria, si fosse meglio documentato o più semplicemente, fosse rimasto fedele alla tradizione.
2. Che i rivoluzionari francesi dovessero prendere come loro emblema un cappello che i greci attribuivano a Paride, - frigio pastore- figlio di Priamo può apparire di poca importanza; mentre appare paradossale che i sanculotti d’oltr’alpe adottassero proprio il cappello frigio simbolo dell’ancestrale tradizione avendone proprio costoro sveltone le radici.
Le travail a esté mien, le profit en soit au lecteur, et à Dieu seul la gloire.
Jean Rey
gdg
Ecce magnis auribus
Subjugalis filius
Asinus egregius
Asinorum dominus.
Cattedrale Saint-Etienne, Beauvais.
E ancora : Aurum de Arabia,
Thus et myrram de Saba
Tulit in Ecclesia
Virtus asinaria
Hez,Sir asne, hez!
Quarta strofa del manoscritto di Sens denominato “ Prosa dell’Asino” di Pierre de Corbeille, XIII° secolo.
L’asino viene rappresentato nella Bibbia poi, come la montura dei principi ( Libro dei Giudici,V,10) e dello stesso Re della Pace nell’entusiastica profezia ( Isaia, Profezie,I,3 ) che prefigura l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme nel giorno delle Palme; senza dimenticare la fuga in Egitto del Salvatore e di Maria sulla groppa dello sgraziato animale.
In tutti i casi possiamo quindi dire che l’asino “ porta” il Cristo, come Cristoforo tant'é che in una icona del Museo storico di Mosca il santo viene rappresentato con una testa d’asino.
Ma è Fulcanelli che del goffo animale ne sancisce l’insostituibilità :
“ l’asino è l’aliboron mitico, il cavallo del Sole ” ( Les Dimores Philosophales , I° V.) mentre il Cristo è il Sole di giustizia,
l’Oro nascente.
Quest’asino quindi, che potrebbe sorprendere se non scandalizzare per gli onori che , in un rubicondo e giocoso tourbillon, gli venivano attribuiti nelle “ Feste dell’Asino” di antica memoria, può aver indotto il solerte artigiano della Val Pusteria a sostituirlo nel presepe perché “ simbolo di un soggetto bruto e fortemente disgraziato ” ? Inoltre, l’asino quale montura del Cristo é nello stesso tempo portatore di una “ croce redentrice ” disegnata sulla schiena, senza considerare poi, quando lo si ritrae mentre “canta la sua messa” come nel castello di Plessis- Bourré ( Eugène Canseliet “ Deux Logis Alchimiques ” ) e prima ancora, nelle cattedrali di Nantes e Chartres.Vicino all’asino va posto il toro ( e non il bue, si veda “ Le sacrifice cosmique du taureau zodiacal ”, Severin Batfroi in Atlantis n° 286,1976 ), indipendentemente dal fatto che recenti studi attribuiscono ad Arnolfo di Cambio e non a S.Francesco d’Assisi la “ paternità ” del presepe.
Il toro nei culti precristiani si identificava con il sole come l’Apis egizio portatore del disco solare opportunamente collocato nelle ampie corna che evocano la luna e nel contempo, l’elegante connubio fra l’astro diurno e notturno. Ed è questo connubio che gli alchimisti hanno voluto indicare sovrapponendo al cerchio la falce lunare per poi aggiungere una croce ed un punto centrale qualora fosse necessario.
Nel mitreo del Circo Massimo a Roma, forse il più completo dei mitrei italici, il dio Mitra – sole invitto - dal cappello frigio - 2- aggredisce un possente toro infliggendogli con una daga una larga ferita alla gola: un cane e un serpente vi si abbeverano mentre in alto a sinistra della composizione, un corvo annuncia “ l’aprico raggio di Febo ” . Il culto aveva luogo in una grotta nel seno della Madre Terra poiché “ fin dalle origini il Toro sembra rappresentare il Dio Creatore e sopra ogni cosa, il cielo” ( J.Duchaussoy in Le Bestiaire divin ): e questo è un altro connubio al quale il presepe vuole dare particolare risalto.
Mi perdonerà il lettore di queste mescolanze di culti e religioni che non vogliono né confondere o turbare gli animi, ma molto più semplicemente vogliono attribuire un ben diverso ruolo ai due animali che devono, mio caro signor Lardeschneider, essere posti con il giusto risalto in tutti i presepi .
gdg
Note.
1. L’etimologia di presepe non è priva di sorprese . Dal latino prae= pre e saepire= cingere con una siepe. Da qui le fedeli rappresentazioni di alcuni artisti che ritraggono il Figlio di Dio protetto da una sorta di intreccio a graticcio ( se non in miglior modo, avvolgendo il corpo del “ Pesce solare ” con fasce incrociate ). Il significato è “ parlante ” e la greppia o mangiatoia o se si preferisce, la stalla potrebbero portare a proficue riflessioni se l’ artigiano di S. Candido prima di intagliare il legno con indubbia maestria, si fosse meglio documentato o più semplicemente, fosse rimasto fedele alla tradizione.
2. Che i rivoluzionari francesi dovessero prendere come loro emblema un cappello che i greci attribuivano a Paride, - frigio pastore- figlio di Priamo può apparire di poca importanza; mentre appare paradossale che i sanculotti d’oltr’alpe adottassero proprio il cappello frigio simbolo dell’ancestrale tradizione avendone proprio costoro sveltone le radici.
Le travail a esté mien, le profit en soit au lecteur, et à Dieu seul la gloire.
Jean Rey
gdg
I simboli del Natale
Alfredo Cattabiani
Le feste natalizie sono costellate di cerimonie ed usanze di cui non tutti conoscono il significato profondo, l’origine e l’evoluzione. Alcune di esse derivano da tradizioni pagane cristianizzate. Questa commistione di usanze di ispirazione evangelica con altre precristiane è dovuta alla collocazione calendariale del Natale che, diversamente dalla Pasqua, è errata storicamente. Nel vangelo di Luca si narra soltanto che nel periodo in cui nacque Gesù c’erano a Betlemme dei pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al gregge. Siccome sappiamo che i pastori ebrei partivano per i pascoli all’inizio della primavera, in occasione della loro Pasqua, e tornavano in autunno, è evidente che il Cristo nacque tra la fine di marzo e il primo autunno; tant’è vero che fino alla fine del III secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi, in date differenti: il 28 marzo, il 18 aprile o il 29 maggio.
Nella seconda metà del secolo III si affermò nella Roma pagana il culto del sole, di cui l’astro non era se non una manifestazione sensibile. In suo onore l’imperatore Aureliano aveva istituito una festa al 25 dicembre, il Natalis Solis Invicti, il Natale del Sole Invitto, durante il quale si celebrava il nuovo sole “rinato” dopo il solstizio invernale. Molti cristiani erano attirati da quelle cerimonie spettacolari; sicché la Chiesa romana, preoccupata per la nuova religione che poteva ostacolare la diffusione del cristianesimo più delle persecuzioni, pensò bene di celebrare nello stesso giorno il Natale di Cristo. La festa, già documentata a Roma nei primi decenni del IV secolo, si estese a poco a poco al resto della cristianità.
La coincidenza con il solstizio d’inverno fece sì che molte usanze solstiziali, non incompatibili con il cristianesimo, venissero recepite nella tradizione popolare. D’altronde non si trattava di una sovrapposizione infondata, perché fin dall’Antico Testamento Gesù era preannunciato dai profeti come Luce e Sole. Malachia lo chiamava addirittura “Sole di giustizia”.
Per questi motivi già nei primi secoli l’accostamento del sole al Cristo era abituale, come testimonia Tertulliano: “Altri ritengono che il Dio cristiano sia il sole perché è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e nel giorno del sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per un motivo del tutto diverso dall’adorazione del sole”.
Collegata a questo simbolismo di luce è l’usanza di adornare l’uscio di casa con piantine come il pungitopo o l’agrifoglio dalle bacche rosse, mentre quella del vischio è una tradizione celtica cristianizzata. La si considerava una pianta donata dagli dei poiché non aveva radici e cresceva come parassita sul ramo di un’altra. Si favoleggiava che spuntasse là dov’era caduta una folgore: simbolo di una discesa della divinità, e dunque di immortalità e di rigenerazione. La natura celeste del vischio, la sua nascita dal Cielo e il legame con i solstizi non potevano non ispirare successivamente ai cristiani il simbolo di Cristo: come la pianticella è ospite di un albero, così il Cristo, si dice, è ospite dell’umanità, un albero che non fu generato nello stesso modo con cui si generano gli uomini. Alla luce delle antiche feste solstiziali si seguivano alcune usanze, come ad esempio quella di accendere fuochi e falò che hanno, si dice, la funzione simbolica di “bruciare” le disgrazie e i peccati dell’anno morente, di purificare, ma anche di ricevere dal sole, composto di fuoco, nuova energia, fertilità e fecondità: sole che altro non è se non il simbolo di Cristo, come si è già detto.
Ma torniamo alla notte di Natale quando, una volta e ancora adesso in qualche famiglia toscana o emiliana, si accendeva dopo la cena di magro un ceppo che rappresenta simbolicamente l’Albero della Vita, il Cristo, dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa, le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondino il grano e la farina e si riempia la conca di vino” – “Il giorno del pane”, lo chiamavano: per questo motivo si mangiavano, come oggi d’altronde, dolci a base di farina che hanno nomi diversi secondo le regioni: pangiallo, pane certosino, pandolce, panforte, pampepato e panettone. Perché mai il pan dolce? L’usanza di consumare questo alimento nei periodi solstiziali potrebbe risalire agli antichi Romani, perché Plinio il Vecchio riferisce che alla festa del Natalis Solis Invicti si confezionavano le sacre e antiche frittelle natalizie di farinata. Con l’avvento del cristianesimo si modificò l’interpretazione riferendosi alle parole di Gesù: “lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più lame e chi crede in me non avrà più sete; io sono il pane della vita”. Il Pane della Vita s’incarnò proprio a Betlemme, che nell’ebraico Bet Lehem significava Casa del Pane, nome dovuto probabilmente al fatto che proprio in quella cittadina era un immenso granaio, essendo circondata da campi di frumento.
Quanto al ceppo, non è il solo simbolo arboreo natalizio: lo è anche l’abete che fin dall’epoca arcaica tu considerato un albero cosmico che si erge al centro dell’universo e lo nutre. Fu facile ai cristiani del nord assumerlo come simbolo del Cristo. Nei paesi latini l’usanza si diffuse molto tardi, a partire dal 1840, quando la principessa Elena di Maclenburg, che aveva sposato il duca di Orléans, figlio di Luigi Filippo, lo introdusse alle Tuileries suscitando la sorpresa generale della corte. Persino i suoi addobbi sono stati interpretati cristianamente: i lumini simboleggiano la Luce che Gesù dispensa all’umanità, i frutti dorati insieme con i regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il simbolo della Vita spirituale e dell’Amore che Egli ci offre.
Anche l’usanza della tombola nel pomeriggio del Natale ha una derivazione pagana: durante i Saturnali, che precedevano il solstizio e sui quali regnava Saturno, il mitico dio dell’Età dell’Oro, si permetteva eccezionalmente il gioco d’azzardo, proibito nel resto dell’anno: esso era in stretta connessione con la funzione rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le sorti agli uomini per il nuovo anno; sicché la fortuna del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere della divinità.
Nella Roma antica, in occasione dell’inizio dell’anno si usava anche donare delle strenae che arcaicamente erano rametti di una pianta propizia che si staccavano da un boschetto sulla via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e felicità. Poi a poco a poco si chiamarono strenae anche doni di vario genere, come succede ancora oggi.
É invece soltanto cristiana l’usanza del Presepe. Il primo, vivente, con il bue e l’asino nella mangiatoia, risale al 1223 a Greccio, un paese vicino a Rieti: lo ideò san Francesco d’Assisi ispirandosi a una tradizione liturgica sorta nel secolo IX, quando in molti Paesi europei si formarono dall’ufficio quotidiano delle ore i cosiddetti uffici drammatici a rievocare le principali scene evangeliche con brevi dialoghi. Successivamente quei primi esperimenti si ampliarono in strutture più vaste e complesse, sicché il tema della Natività ispirò nel monastero di Benedikburen un vero e proprio dramma al cui centro campeggiava quella del presepe.
Ispirandosi a quelle sacre rappresentazioni Francesco volle rievocare la scena della Natività con un bue e un asino in carne ed ossa. “L’uomo di Dio” scrisse san Bonaventura da Bagnoregio “stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia”. Ancora oggi a Greccio si celebra il presepe vivente da cui sono derivati quelli inanimati. La mangiatoia era vuota ma il cavaliere Giovanni di Greccio, molto legato a Francesco, affermò di avere veduto un bellissimo fanciullino addormentato che il beato Francesco, stringendolo con entrambe le braccia, sembrava destare dal sonno.
Avvenire del 2 marzo 2003.