Il Vertice e l'Abisso di Jean Brun.
Sono incappato in Jean Brun nel leggere un suo splendido commento alla figura di Henry Corbin autore della <<Scienza della Bilancia e le corrispondenze fra i mondi nella gnosi islamica.>>
Critico dell'uomo moderno, il filosofo francese così si esprimeva sul tempo presente:
<< Vi é erotismo frenetico, rivoluzione senza dottrina, erostratismi nichilisti, stupefacenti chimici e intellettuali, formalizzazioni concettuali, disintegrazione e psichedelia, dominio dei mass media, la giocosità forsennata, la crudeltà e la violenza . "
Nello stesso libro Le Retour de Dionysos il filosofo condanna lo stile di vita che ci rende onnivori perché divoriamo "i valori, le idee, le celebrità, i neologismi, l'orario della spazio, gli slogan, gli idoli, le mode, i partner, i gerghi, i bestsellers , l' indignazione,le rivolte e le rivoluzioni, i marchi, le immagini, gli esseri e gli ismi di ogni natura".
Gli spunti di riflessione nell'articolo che segue sono di grande interesse.
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Il Vertice e l'Abisso di Jean Brun.
Dai processi iniziatici allo specchio
Nello sforzo di conquistare le vette, l'uomo tenta di strappare il velo delle nubi per arrivare a sollevarsi al di sopra di ciò che lo circonda e della Terra che abita. Esplorando gli abissi, egli cerca di strappare il velo della superficie dell'esistenza per scendere in essa e penetrarne i segreti. Crede così di riuscire a superare se stesso e di scendere nel più profondo di sé.
Ma ovunque la sua ombra lo segue e, nella discesa come nella risalita, non incontra altro che la traccia dei suoi passi.
L'alpinismo e la speleologia costituiscono molto più che semplici sport; infatti l'ascensione di una montagna o l'esplorazione di un baratro rappresentano altrettanti viaggi iniziatici, nel corso dei quali si lancia una sfida alla morte per sollevarsi fino a un panorama del mondo e dell'essere e per sprofondarsi nelle viscere della Terra dove germogliano tutti i semi. Ecco perché sono così numerose le sacralizzazioni della Sommità e dell'Abisso.
La montagna, infatti, gioca un ruolo rilevante nella mistica, basti citare il Montsalvat del Graal, il Monte Meru, la Montagna di Qaf del sufismo, il Fujiama, il Sinai, il Monte Tabor, il Monte degli Ulivi e tanti altri. La montagna simbolizza le nozze del Cielo e della Terra; ecco perché l'uomo si è sforzato di costruire quelle montagne artificiali che sono le Torri, gli Ziggurat o la Torre di Babele. Ma è forse soprattutto nel racconto incompiuto di René Daumal, Il Monte Analogo, che troviamo la descrizione più esplicita di ciò che rappresentano la montagna e la sua vetta. Il Monte Analogo è la «montagna simbolica che è la via che unisce il Cielo alla Terra, via che deve materialmente, umanamente esistere, altrimenti la nostra situazione sarebbe senza speranza»[1]. Il raccontò si presenta dunque come un «romanzo di avventure alpine non-euclidee». Se non si è potuto scoprire questo monte è perché i materiali che lo costituiscono curvano lo spazio e fanno andare alla deriva le navi, per effetto magnetico. Ma René Daumal ha la soluzione del problema e ci invita a dedicarci all'«alpinismo analogico» che ci permetterà di cogliere, dalla vetta, «l'universo in una prospettiva sconosciuta»[2].
La cima è dunque quell'altezza da cui ci si dedica a una scoperta e ad una scopertura della Terra; un panorama si scopre ai nostri occhi, abbiamo conquistato l'altezza. Una simile esperienza ci mette di fronte a tre nozioni capitali.
La prima è quella della conquista. Nel corso della sua marcia e della sua avanzata, assicurando i suoi appigli al suolo, l'uomo si è allontanato dalla superficie (una superficie che in realtà lo segue ma di cui non si cura) attraverso una lenta e difficile progressione. Ha così la sensazione di avere conquistato con la sua forza la via d'accesso alla verticalità.
La seconda nozione è quella di panorama. Giunto alla sommità, l'uomo ha una visione sinottica di ciò che si trova al di sotto di lui e che egli domina, non solo nel senso geografico del termine, ma anche e soprattutto nel senso dominante dell'espressione. È così che nasce il sentimento di potenza che anima un aviatore come Saint-Exupéry, sorta di alpinista motorizzato che, dall'alto del suo posto di pilotaggio, non dice, al momento di atterrare, di scendere verso Tangeri, ma vede Tangeri salire verso di lui. Il panorama, al quale il cammino ascendente permette di accedere, possiede una risonanza che supera infinitamente l'ambito della cartografia. Questo panorama è, più o meno oscuramente per noi, di ordine ontologico; abbiamo la sensazione di avere infine accesso all'essere dell'abitazione dell'uomo, all'essere del luogo dove si svolge la condizione umana. Così questa visione prospettica del mondo da cui siamo partiti e di cui immaginiamo di essere parti ci fa sfiorare un'esperienza d'estasi.
La terza nozione sulla quale conviene insistere è quella di svelamento. Per accedere alla vetta è stato spesso necessario infrangere quel velo che costituisce il soffitto delle nubi; avremo occasione di riparlare dell'esperienza dello svelamento, ma già da ora possiamo dire che questo squarciare il velo ci invita a una contemplazione della verità. L'apparenza divenuta trasparenza sembra dischiudere l'accesso all'Invisibile. Pensiamo che centinaia di milioni di uomini si svegliano ogni giorno e che, dall'alto dell'Himalaya, le aurore offrono meravigliosi spettacoli che aspettano invano occhi che li contemplino. La conquista della cima delle cime non ci permetterà forse di possedere la chiave di tutte le albe della vita? Dall'alto del Monte Analogo, René Daumal ci invita a trascendere il catalogo dell'esistenza distesa sotto i nostri occhi come un'immagine fatta a pezzi.
Il panorama esaltante, nel senso etimologico e preciso di questo aggettivo, a cui conduce la conquista del vertice esige come complemento l'esplorazione dell'abisso. Sondare un abisso, infatti, consiste nel penetrare nelle viscere di quella Grande Madre che la Terra rappresenta, nello scavare la matrice che nasconde i germi delle cose e dei viventi. È noto che gli alchimisti, per esempio, pensavano che le gemme preziose e i minerali fossero i frutti sotterranei della Terra, che convenisse lasciarla riposare per un certo tempo prima di continuare l'estrazione dei suoi tesori, affinché avesse il tempo di ricostituirli, di lasciarli maturare lentamente, permettendo loro di sbocciare davanti agli occhi meravigliati di chi partisse all'avventura nel suo seno. Ma è anche nelle profondità tenebrose della Terra che si originano i vegetali e persino i viventi, come la parola "autoctono" ci fa capire.
Scendere nei baratri, introdursi nelle miniere, significa dunque cercare quel panorama iniziatico che ci permette di svelare il seme supremo della realtà, della vita e dell'esistenza. La scalata verso la cima si è qui invertita in «viaggio al centro della Terra», penetriamo nell'essenza interna che ci era nascosta. Ecco perché una simile esperienza assume spesso i tratti di un'avventura impossibile o quelli di un cammino proibito, come ci mostra Albrecht von Haller[3]:
"All'interno della natura non penetra nessun spirito creato,
Già soddisfatto se essa mostra solo la scorza esterna! "
Tuttavia questa è la prova superata da Dante che, sotto la guida di Virgilio, che una tradizione considerava un alchimista, va a visitare le dimore infernali situate al di là della vita per riuscire, come Orfeo, ad attraversare due volte l'Acheronte e uscirne vincitore.
Si può trovare una ricca materia di riflessione su queste prospettive in un'opera di Hegel altamente istruttiva, ma che la tradizione positivista ha relegato sullo sfondo, facendola passare per ciò che vi è di veramente morto nell'hegelismo. Intendiamo parlare della Filosofia della Natura, che costituisce la seconda parte dell'Enciclopedia. Per Hegel, infatti, la Terra è molto più di un semplice pianeta di cui gli astronomi possono definire le coordinate o di cui i fisici fanno la contabilità degli elementi. Essa è un individuo universale la cui individualità è la condizione e la possibilità di ogni individualità particolare. Sostrato dell'acqua, del fuoco, del magnetismo e dell'elettricità, essa è insomma «cristallo di vita». Bisogna soprattutto evitare di ridurla a un aggregato meccanicamente costituito di elementi; luogo di tutto ciò che palpita, abbozzo della vita, la Terra produce, dunque, non la struttura individuale, ma la Vitalità: in ogni punto essa tende in modo infinito alla Vitalità puntiforme e passeggera. Così ogni individuo si trova fecondato dalla totalità della vita: «Codesta divisione dell'organismo universale ed esterno a sé, e della soggettività soltanto puntuale e transitoria, si nega mediante l'identità che è in sé del suo concetto, elevandosi all'esistenza di tale identità, all'organismo animato, alla soggettività che si articola in se stessa; la quale esclude da sé l'organismo che è soltanto in sé, la natura fisica universale e l'individuale, e le si contrappone: ma insieme ha in queste forze la condizione della sua esistenza, lo stimolo e il materiale del suo processo»[4].
La passione concettuale che Hegel poteva provare per la Terra si ritrova poeticizzata in Goethe, che si è dedicato a studi sulle rocce di Carlsbad, di Marienbad, di Kammersberg, di Wolfsberg, eccetera, e che ha costruito numerose speculazioni sui cristalli e sul granito. La sua passione per la mineralogia si spiega con il sentimento che egli aveva di estrarre dalle profondità del pianeta dei testimoni di tempi sepolti. Ecco perché sostenne il contrario del testo di Albrecht von Haller che abbiamo appena citato, per proclamare la sua fiducia nella possibilità di strappare alla Terra i suoi segreti[5]:
"All'interno della natura!
O Filistino!
Non penetra nessuno spirito creato.
A me e ai miei fratelli e sorelle
Possiate soltanto
Far obliare questa parola:
Noi pensiamo: Luogo per luogo
Siamo all'interno.
Beato colui a cui solo
Essa mostra la scorza esteriore!
Ecco ciò che sento ripetere da sessant'anni,
E io vi impreco contro, ma segretamente;
Mi dico mille e mille volte:
Tutto si offre in abbondanza e spontaneamente;
La Natura non ha né nocciolo
Né scorza,
Essa è tutta immediatamente;
Fa' semplicemente la prova su te stesso:
sei nocciolo o scorza?"
Il viaggio al centro della terra ci rivela dunque tutt'altra cosa che una carta geografica del sottosuolo, ci rivela la carta d'identità degli individui nella loro relazione con ciò che li costituisce come tali. E questa la ragione per cui, nei romantici tedeschi, la discesa in miniera assume tutti i caratteri di un viaggio iniziatico complementare all'ascensione del Monte Analogo di cui abbiamo già parlato. Ciò appare in maniera molto netta in Novalis.
È noto che, sotto lo pseudonimo dell'autore di Enrico di Ofterdingen, si nascondeva l'ingegnere delle miniere Friedrich von Hardenberg che compì i suoi studi all'Accademia delle miniere di Friburgo, dove esercitava il mineralogista Werner. Wernercostituisce, con Ritter, una delle personalità più interessanti di questi filosofi della natura a un tempo saggi, filosofi, mistici e poeti. Non dimentichiamo che, in questo senso, Enrico di Ofterdingen è un inno alla sua saggezza e del resto, nel capitolo V diquest'opera, il vecchio capo minatore, centro di tutto il racconto, si chiama Werner. Egli ci confida che «il mestiere di minatore deve essere benedetto da Dio! poiché non vi è arte che renda i suoi adepti più felici e più nobili, né arte che faccia nascere una fede più grande in una saggezza e in una provvidenza celesti»[6].
La discesa nella miniera è, in realtà, concepita come un'esplorazione delle viscere del tempo che racconta gli avvenimenti grandiosi di un passato lontano; per il minatore che la esplora[7]
I santi effluvi dei tempi originari
soffiano intorno al suo viso;
ai suoi occhi, nella notte degli abissi
appare la luce di un raggio eterno.
Queste viscere del tempo sono dunque anche quelle dell'esistenza, poiché le rocce, i fossili, i corrugamenti, i cristalli parlano dell'epoca delle origini in cui ogni germe sonnecchiava ancora, avviluppato in se stesso, prima che la natura si frammentasse in innumerevoli esistenze particolari.
Così i minatori sono degli astrologi controcorrente: «mentre quelli fissano il loro sguardo verso il cielo e percorrono spazi immensi, voi volgerete i vostri verso il suolo e cercherete di scoprire la sua struttura»[8]. Esistono, nella Terra, astri neri che chiedono solo di brillare con tutta la loro luce finché i nostri occhi si poseranno su di loro e noi saremo capaci di leggere ciò che brilla loro intorno. Le costellazioni di rocce costituiscono una sorta di volta celeste in negativo. La miniera è, inoltre, un gigantesco alambicco e Novalis ci dice del minatore[9]:
" È il signore della Terra,
Colui che sonda i suoi abissi
E che, di tutte le miserie,
Trova oblio nel suo seno;
Colui che dei suoi organi di pietra
Comprende la natura segreta
E discende instancabilmente
Fino al suo laboratorio profondo.
Con lei stringe alleanza,
La conosce intimamente,
Per lei brucia d'ardore
Come per una fidanzata."
Il minatore ha davanti a sé un giardino incantato fatto dei metalli più preziosi: «Tra la capigliatura e i graziosi rami d'argento pendevano frutti rutilanti come rubini trasparenti e gli arbusti pesantemente carichi si levavano su di un suolo di cristallo di una lavorazione assolutamente inimitabile»[10]. Così, a chi discende negli abissi della terra si rivelano gli archivi della Natura e della Vita, il volto nascosto delle radici; un sanscrito mineralogico si offre alla sua lettura.
Una celebrazione della miniera si ritrova nel racconto di Ernst Hoffmann Le miniere di Falun, ricco di un potente simbolismo. Vi ritroviamo anzitutto una sintesi di nettunismo e di plutonismo poiché il protagonista, Elis Fröbom, è un giovane marinario che diventa minatore. Per lui gli strati di terreno sono altrettante onde pietrificate; egli naviga nella miniera come su una nave, le rocce hanno vita, i fossili si muovono, una massa rocciosa diventa un cielo nuvoloso, un suolo di cristallo trasparente è un mare pietroso e la terra trasporta il viaggiatore come fa l'oceano. Ecco perché la discesa in miniera è un viaggio iniziatico paragonabile a quello che ritroveremo ne I discepoli di Sais di Novalis. Elis ama, in realtà, Ulla Pehrson, la figlia del minatore-capo; prima di sposarsi, vuole portarle dalla miniera «l'almandina dallo scintillio rosso vivo sulla quale è incisa la loro Tavola di vita»[11]; contemplandola, afferma, entrambi avranno «la chiara visione che la loro anima è indissolubilmente unita alle meravigliose vegetazioni che sbocciano nel cuore della Regina e salgono dal Centro della terra»[12]. L'epilogo drammatico del racconto è noto: Elis è trascinato verso il fondo della miniera, come il viaggiatore di Edgar Allan Poe viene risucchiato dal Maelstròm, e scompare dalla vista del mondo. Una cinquantina d'anni più tardi, la miniera restituirà la sua preda perfettamente conservata dai sali di vetriolo; una vecchia riconoscerà il suo fidanzato, al quale la miniera aveva conservato la giovinezza, e si getterà nelle sue braccia morendovi. La miniera aveva restituito un tempo immutabile.
Così dunque l'alpinismo mira a conquistare il panorama della vita e la speleologia analogica cerca di scoprire il seme, di questa vita.
L'ascensione e la discesa sono state trasposte nei processi più intellettuali che nascondono, anch'essi, delle catture e delle captazioni dell'esistenza. Per mettere in evidenza il significato e la portata di simili imprese occorre partire dalle analisi di Platone sulla dialettica. È noto che, in testi celebri, Platone distingue una dialettica ascendente e una dialettica discendente[13]. La dialettica ascendente si solleva di idea in idea per giungere all'anipotetico, all'Incondizionato, cioè al Bene che è al di là dell'esistenza[14] e che illumina tutte le cose. Una simile dialettica si propone dunque di scoprire il Principio dei principi, la vetta dall'alto della quale una piroetta mentale sui talloni, come direbbe Poe, permette di dominare l'organizzazione delle cose e degli esseri. Quanto alla dialettica discendente, essa trae le conseguenze da questo principio anipotetico e ricostruisce la serie delle idee, ci mostra come l'Incondizionato ha condizionato le relazioni che uniscono tutti gli individui gli uni agli altri.
Ci troviamo dunque in presenza, se non di processi iniziatici, almeno di fronte a percorsi della conoscenza che conducono l'uno a una visione sinottica[15], che mette capo a un panorama dell'essere, l'altro a uno svelamento della catena degli esseri secondo i filoni dell'esistenza.
Storicamente e filosoficamente, questa ascesa e questa discesa dialettiche, che dominano le vie platoniche del sapere, rappresentano in germe due vie differenti ma complementari. La prima è la via speculativa che si ritrova in Aristotele, la seconda è la via mistica che si incontra in Plotino. Per divergenti che possano sembrare, queste due vie si sovrappongono e ciascuna di esse permette di chiarire l'essenza dell'ascesa e della discesa.
In Aristotele, l'ascesa concettuale si ritrova sotto la forma dell'induzione. È noto che Aristotele la definisce come un passaggio dal particolare al generale. Per questo osservatore minuzioso del mondo delle pietre, delle piante, degli animali e dell'uomo, è essenziale giungere a una classificazione degli individui in modo da poter mettere un ordine comprensibile in una molteplicità all'apparenza non sintetizzabile. La classificazione consiste nel fare l'inventario dei caratteri che alcuni individui possono avere in comune in modo da poterli classificare secondo dei generi. Più grande sarà il numero dei caratteri identici rilevati, più ridotta sarà la classe comune; meno grande sarà il numero dei caratteri identici, più il genere definito sarà vasto. Si giunge così a organizzare una piramide dei concetti. Dalla sommità di questa piramide classificatrice ci si offrirà un panorama delle famiglie, dei gruppi, dei generi, delle specie, delle varietà e degli individui.
Quanto alla dialettica discendente, la ritroviamo trasformata, in Aristotele, in quella deduzione che è un passaggio dal generale al particolare. Ma ora si pone il problema di sapere che cosa troviamo in fondo a questa discesa: autentici individui o astrazioni? Questa è la domanda da cui scaturirà la famosa "disputa sugli universali" che appassionò tutto il Medioevo.
La posta in gioco può apparire futile; in realtà, è tra le più importanti. Da che parte sta l'autentica realtà: dal lato delle nozioni generali o dal lato degli individui, si trova in cima o in fondo alla piramide? Per i realisti, la realtà autentica si trovava nei concetti generali; questa, del resto, era stata la posizione di Platone, secondo cui esisteva soltanto il triangolo in sé, i triangoli particolari non essendo altro che copie imperfette del loro modello. Per i nominalisti, invece, i concetti generali erano puri nomi, il cui uso poteva essere comodo ma che non rappresentavano nessuna autentica realtà, poiché questa si trovava dalla parte degli individui, di cui non esistono due identici. Questa, del resto, era stata la posizione di Aristotele, secondo cui la scienza era solo del generale e l'esistenza del particolare: ciò che esiste non è il cavallo in genera e, ma questo o quel cavallo.
Benché simili dispute possano apparirci oziose e di un vuoto verbalismo, possiamo affermare che noi ne viviamo il risultato. Oggi i "realisti" hanno trionfato nella disputa sugli universali. Infatti, a partire da Auguste Cotte, Karl Marx, Edile Durkheim e altri, si continua a ripetere che gli individui sono delle pure astrazioni e che le sole realtà sono quegli universali che si chiamano ora la classe, ora la razza, ora la società, ora lo Stato o il partito; noi viviamo l'epoca della disincarnazione operata dal concetto.
Questi due movimenti concettuali di ascesa e di discesa sono rafforzati dall'apporto delle matematiche e da quello dell'esperimento scientifico che utilizza strumenti sempre più precisi. La ricerca intellettuale del panorama dell'essere mette capo ai tentativi di Laplace di scoprire "l'assioma universale" o a quelli di Einstein che cercava di definire l"equazione dell'universo'. Essa sfocia anche in quegli universali moderni che vengono dati come ciò a partire da cui tutto si spiega, che si tratti della libido, dellapraxis, dell'episteme o del cammino della Storia.
Tuttavia, accanto alle ascese nell'iper, occorre considerare il ruolo molto importante delle discese nell'infra. È così che si scavano tutti i terreni sperimentali per scoprire il germe stesso del soggetto. David Hume aveva creduto di trovarlo nella sensazione, poiché per lui ciò che noi chiamiamo soggetto non era altro che un "ammasso" (bundle) di sensazioni e di immagini. Un biologo come Haeckel, che ebbe ancor più successo di Theilard de Chardin e che oggi è pressoché dimenticato, pensò di scoprirlo nellamonera primitiva. Ai giorni nostri, i chimici moderni parlano piuttosto di DNA. Quanto agli strutturalisti, essi invocano il segno di cui la semiologia deve fare l'inventario.
Così, da una parte, si integra nel corso di un processo ascensivo; si giunge a un punto di vista di Sirio, dall'alto del quale gli individui sono considerati come microscopici animali trascurabili; il concetto diventa carcerario e la sommità pretende talmente di dominare che finisce per schiacciare. D'altra parte, si disintegra nel corso di un processo discensivo, si giunge così alle micro-dissezioni e alla miopia intellettuale. In un caso la foresta impedisce di vedere gli alberi, nell'altro le microfotografie della cellulosa impediscono di vedere le foglie, i rami e l'albero al quale essa appartiene. In entrambi i casi, la persona si trova eliminata a vantaggio di un andirivieni, sull'essenza del quale Plotino ci permetterà di riflettere.
Se la filosofia di Aristotele con i suoi prolungamenti costituisce una delle due vie nate dalla dialettica platonica, il misticismo speculativo di Plotino ne costituisce un'altra. È noto che Plotino distingue una via ascendente (anodos) e una via discendente (cathodos), a partire dalle quali ci presenta la sua visione del mondo. La via ascensiva è fatta di una risalita di ipostasi in ipostasi che deve condurci fino alla contemplazione dell'Uno. Questo Uno generatore di tutto non è niente di ciò che genera; esso è, come l'anipotetico di cui parlava Platone, al di là dell'essenza e dell'esistenza. Questa risalita al Principio supremo, alla Sorgente originaria costituisce, secondo Plotino, «la fine del viaggio». Gli uomini superiori «vedono con uno sguardo penetrante la luce splendente in alto; si sollevano al di sopra delle nubi e delle tenebre di qui in basso; vi soggiornano guardando dall'alto tutte le cose di questo mondo»[16]. Ritroviamo qui quella nozione di panorama che abbiamo sottolineato fin dalla prime analisi.
Plotino riprende dunque, in un certo senso, il procedimento platonico poiché distingue, anche lui, un'altezza alla quale bisogna accedere e una zona bassa dalla quale occorre staccarsi. Tuttavia, l'accento è qui molto più mistico di quanto sia in Platone; come ci testimonia il suo allievo e biografo Porfirio, a più riprese Plotino ha “visto”; ha visto come un visionario ed è per questo che la nozione di contemplazione (theoria) ricopre un ruolo così importante nella sua filosofia.
Quanto alla discesa, essa è essenzialmente catastrofica, è quella caduta nel corso della quale l'anima perde le ali per cadere in un corpo. Certo, possiamo ritrovare qui delle tracce delle concezioni orfico-pitagoriche, presenti anche in Platone, ma esse sono molto più drammatizzate poiché la discesa è una decadenza e quando l'anima scende si dirige verso il male[17].
La meta a cui termina il viaggio ascensivo plotiniano è notevolmente istruttiva e ci permetterà di scoprire l'essenza stessa dello svelamento.
Plotino ci dice, infatti, da una parte, che in questa ascesa occorre spogliarsi di sé, abbandonarsi[18], non essere più se stessi[19], ma che, d'altra parte, questo spogliarsi, condizione stessa dell'ascesa e della contemplazione estatica, è «l'opera di colui il quale vuole contemplare» [20] poiché «il desiderio di vedere genera la visione» [21]. Ancora, e questo è fondamentale, l'ascesa conduce a ipostatizzare il sé. Infatti il soggetto che vede fa tutt'uno con ciò che vede; niente è più significativo in proposito del paragone compiuto da Plotino con il lavoro dello scultore. Per giungere a liberare la statua dalla massa informe da cui essa nascerà, lo scultore deve raschiare il marmo, pulirlo e togliere tutto ciò che c'è di troppo perché restino solo le belle forme la cui immagine l'ha guidato nel suo lavoro[22]. È necessario che chi intraprende la via ascensiva della contemplazione faccia lo stesso nei propri confronti. E Plotino ci lancia questo imperativo da iniziatore: «Continua a scolpire la tua statua».
Si è dunque condotti all'illuminazione finale quando «si diventa contemplatori di se stessi [...] e oggetto della propria contemplazione»[23]. Di conseguenza, è altrettanto vero dire che «l'oggetto che vediamo è la luce stessa» [24], quanto costatare: «Sei diventato una visione» [25]. Accade così perché l'occhio si è assimilato all'oggetto visto.
Ci troviamo dunque di fronte a un paradosso apparente ma assai rivelatore: da un lato ci viene richiesto di uscire da noi stessi, dall'altro ci viene detto che la contemplazione ci conduce a vedere noi stessi. È così perché la conversione plotiniana è un itinerario lungo il quale dobbiamo compiere in senso inverso il cammino della processione: la salvezza non è da compiere, è già compiuta e noi dobbiamo solo prenderne coscienza [26]. Di qui il senso delle due immagini-chiave di cui si serve Plotino: quella del getto d'acqua e quella del raggio luminoso. Le goccioline d'acqua sgorgano tutte dal punto originario da cui è uscito il getto d'acqua, cadono sparpagliandosi nel diverso e nel molteplice, sono l'immagine stessa della caduta nel male; noi dobbiamo sforzarci di percorrere in senso inverso l'itinerario che esse hanno seguito per giungere all'Uno estatico. Lo stesso vale per i raggi luminosi che nascono da un punto centrale a partire dal quale divergono per perdersi a poco a poco in un'oscurità dove muoiono; noi dobbiamo distoglierci da questa fine catastrofica e risalire fino al punto luminoso originario dove contempleremo la luce stessa, dove noi stessi diventeremo luce.
Ci troviamo dunque qui ai due antipodi del Deus absconditus della tradizione giudaico-cristiana. È così perché, fin dal principio di tutte queste analisi, stiamo gravitando intorno all'esperienza dello svelamento, esperienza dello svelamento che non ha niente a che vedere con quella della Rivelazione.
È lo svelamento del panorama ontologico che presiedeva al cammino ascensivo e alla conquista della sommità del sapere. È lo svelamento dell'elementare primordiale, che presiedeva alla discesa che scava ed esplora, ciò a partire da cui le ricostituzioni demiurgiche dell'essere sarebbero possibili. Noi abbiamo proceduto dallo svelamento dominatore allo svelamento scrutatore. La nozione di velo è una nozione centrale implicitamente presente dappertutto in Plotino. Per lui la visione è, infatti, un contatto e una fusione con ciò che si contempla nel santuario [27] e Plotino ci parla con naturalezza dei misteri che vengono svelati agli iniziati [28].
La stessa esperienza domina la celebre opera di Novalis I discepoli di Sais. Giacinto abbandona Fior di Rosa perché pensa che, per meritare il suo amore, deve anzitutto avere contemplato la Verità in faccia. Parte dunque alla ricerca del santuario di Iside, là dove si trova la Madre degli Esseri, la Vergine il cui viso è velato e la cui statua porta sul piedistallo: «Nessun mortale ha lacerato il mio velo». Dopo aver errato a lungo, Giacinto finisce per trovare il santuario nascosto sotto gli alberi: «Si trovò davanti la vergine celeste! Sollevò il velo leggero, il velo luccicante, e Fior di Rosa fu tra le sue braccia»[29]. L'Iside misteriosa non era altro che la donna che amava. Tuttavia, in un frammento del maggio 1798, Novalis va ancora oltre poiché colui il quale sollevò il velo della dea a Sais vide, «meraviglia delle meraviglie, se stesso».
Così dunque, nella sua marcia ascensiva, il pellegrino in cerca delle vette finisce per rivelarsi a se stesso e il pellegrino degli abissi originari scopre la donna-matrice oltre il velo che strappa. In entrambi i casi, vi è fusione estatica tra vedente e visto. Al centro dell'esperienza plotiniana della contemplazione, che è opera del sé, si trova l'idea essenziale che l'uomo può sollevare egli stesso il velo di fronte al quale si trova e, cosa ancora più importante, che trova se stesso dietro il velo in questione. Il velo nascondeva uno specchio, non nascondeva altro che uno specchio.
Potremmo affermare ora che, da Platone a Nietzsche escluso, la maggior parte dei filosofi ha invitato l'uomo a sollevare un angolo del velo che nascondeva la verità. La cosa è molto netta in Cartesio, poiché questo filosofo dell'evidenza, delle idee chiare e distinte, dell'intuizione, insomma della vista, insiste sulla distinzione che è opportuno stabilire tra comprendere e conoscere. Comprendere è abbracciare con il pensiero, conoscere è soltanto toccare con il pensiero; è così che noi conosciamo Dio, ma non possiamo comprenderlo. Lo stesso vale per quell'idea di infinito che è in noi, che è nata con noi, ma che non abbiamo fatto nascere noi. Questa idea di infinito, o di perfezione, è parzialmente immanente in noi ma resta profondamente trascendente all'uomo. Allo stesso modo, Kant distingue accuratamente conoscere e pensare e, accanto o piuttosto al di là dei fenomeni ai quali si applica il nostro sapere, riserva un posto importante alla X inconoscibile della cosa in sé. Con Hegel facciamo un passo ulteriore, poiché l'autore della Fenomenologia dello Spirito si propone di squarciare il velo supremo per farci assistere all'autogenesi storica dell'Assoluto e al lavoro del Concetto.
È tuttavia con Feuerbach che le cose diventano del tutto chiare; Feuerbach ci dice implicitamente che, dietro il velo, non c'è altro che l'Uomo, che è il suo solo vero Dio; questa impresa di svelamento ci invita allora a un'attiva contemplazione socio-storica. Per il tramite di una teoria del sapere e della storia, giungiamo alla stessa conclusione di Plotino: dietro il velo si nasconde l'uomo e soltanto l'uomo, il velo che cercavamo di sollevare era solo un vapore da cui lo Specchio era appannato.
L'uomo, quindi, svelatore-svelato, intraprende la propria esplorazione come abisso e come sommità. Sarà animato dal desiderio di scendere e di scrutare in se stesso per scoprire l'elemento che gli permetterà di costruire delle strade ascensive verso vette da cui potrà dominarsi.
L'idea di Hume, secondo cui il soggetto è solo un “ammasso” di sensazioni e di immagini, ha messo capo oggi allo psichedelismo passando per il «teatro di Séraphin», caro a Charles Baudelaire, e per il «teatro magico» del Lupo della steppa di Hermann Hesse. Si tratta ormai di scuotere questo ammasso di immagini per ricomporlo continuamente in nuovi spettacoli, come si fa quando si muovono i pezzi di vetro colorato che si trovano in un caleidoscopio, per poter vedere disegni sconosciuti e sempre nuovi. Di qui il ricorso alle droghe per disintegrare la coscienza e ricomporla secondo dei ritmi differenti, come si farebbe di un mosaico. Così si sviluppa l’exo-psicologia di Timothy Leary [30], che finisce nella costruzione di un vascello spaziale battezzato Terra II, che non è altro che una sorta di Arca di Noè tecnica incaricata di condurci fino alla vetta di qualche nuovo Monte Ararat sconosciuto [31].
Questi processi di disintegrazione, coronati da un'estasi di essenza spaziale, sono accompagnati da processi di integrazione, coronati da un'estasi di essenza sociale poiché, da tutti i lati, siamo invitati ad abbandonare le spoglie dell'individuo per salire verso un iper-organismo socio-macchinale considerato come liberatore.
Così come in Plotino, l'uomo si appoggia su se stesso per scalare una vetta che pensa situata più in alto di lui, al di là degli appigli che deve assicurarsi sulla Terra, come fa l'alpinista che non può piantare i suoi chiodi in Cielo né fissare la sua corda oltre le nubi.
Il velo da sollevare o da strappare nascondeva un semplice specchio che rimanda all'uomo ciò che credeva di abbandonare, cioè la propria immagine.
Tuttavia, salendo e scendendo dalle sommità agli abissi, l'uomo ha finito per avere la nausea di questo specchio ossessivo che gli mostra costantemente il suo viso dietro i veli sollevati. Attraversare lo specchio? Ma non è ritrovarsi dietro di esso e non più davanti? L'esperienza ci riporta al nostro punto di partenza.
Ebbene, ecco che sorge Nietzsche che ci lancia il suo messaggio angosciante: e se dietro il velo non ci fosse niente? Se la realtà non fosse dietro il velo ma fosse solo il velo stesso che si agita al vento del divenire?
NOTE
[1] R. Daumal Le Mont Analogue (trad. it. Il monte Analogo, Adelphi, Milano).
[2] R. Daumal op. cit.
[3] A. von Haller Die Falschheit der menschlichen Tugenden, in „Versuch schweizerischer Gedichte“, Berna, 1732, verso 289 e segg
[4] G.W.F. Hegel Filosofia della natura, par. 342, in Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Bari.
[5] J.W. Goethe Zur Morphologie, tomo I, quaderno 3, Stoccarda e Tubinga, 1820, pag. 304.
[6] Novalis Heinrich von Ofterdingen (trad. it. Enrico di Ofterdingen, Guanda, Milano).
[7] Novalis op. cit.
[8] Novalis op. cit.
[9] Novalis op. cit.
[10] Novalis op. cit.
[11] E.T.A. Hoffmann Le miniere di Falun, in Romanzi e Racconti, Einaudi, Torino.
[12] Ibidem.
[13] Platone Repubblica, VI, 511 b e segg.; Fedro, 265 d e segg.
[14] Platone Repubblica, 509 b.
[15] Platone Repubblica, VII, 537 c.
[16] Plotino Enneadi, VI, 9.
[17] Ibidem.
[18] Plotino op. cit., VI, 9, 11.
[19] Plotino op. cit., VI, 9, 1.
[20] Plotino op. cit., VI, 9, 4.
[21] Plotino op. cit., V, 6, 5.
[22] Plotino op. cit., I, 6, 9.
[23] Plotino op. cit., VI, 7, 36.
[24] Ibidem.
[25] Plotino op. cit., 1, 6, 9.
[26] Sul tema della discesa e dell'ascesa in Plotino vedi l'interessante articolo di Henri-Charles Puech Position spirituelle et signification de Plotin, (1938), in En quête de la gnose (trad. it. Sulle tracce della Gnosi, Adelphi, Milano).
[27] Plotino op. cit., VI, 9, 11.
[28] Ibidem.
[29] Novalis I discepoli di Sais, Tranchida, Milano.
[30] 30. T. Leary La révolution cosmique, exo-psychologie, Parigi, Les Presses de la Renaissance, 1979.
[31] 31. T. Leary Graine d'astre, Riscle, Edition Cosmose, 1979.